10. capitolo
Com’è bella Parigi stamani dopo l’amore con Adèle.
Abbiamo lasciato insieme villa Collet, molto presto, col cielo sereno.
Il bus 58 conduce lentamente lungo rue Didot, le cui immagini di risveglio si stampano sui nostri finestrini simili a un cinema ineguale e più nuovo a ogni curva e fermata. L’autista ha la calma di un maestro e parrebbe intuire tutti i nostri desideri di scoperta anche onirica; fa andare piano il suo mezzo disinvolto, cura i comandi come fossero viventi, e l’autobus che si culla fra le vie sembrerebbe assolutamente rispondere alla sua abilità. In un bar si scorgono per un attimo avventori e passanti, in sosta che sembra religiosa e una madre, poco più in là, che mostra al suo piccolo le lustre vetrine trasparenti. Da una rosticceria emergono soavi presagi, tutti profumati da questa giornata schiusa e sbocciata sui primi cibi esposti.
La place de Moro Giafferi, in cui sembra per un attimo lontano intuire mio padre in un’antica sofferenza, si staglia piccola e curiosa; qui è la città in uno dei suoi angoli infiniti e discosti, mutevoli al passare delle ore. E passano minimi regni veri, porzioni di pensiero che mettono in relazione piana e pacifica le forze straordinarie dell’avventura architettonica, così capaci di premere con scosse intorno alla piazza da ogni dove. Le prime ombre mattutine sbirciano seminascoste per non disturbare, come quando qualcuno entrando in un salottino discosto della casa, e sentendosi impacciato, teme per la sua stessa invasione. Allora la piazzetta è un pezzettino di mosaico fosforescente della metropoli inventata dal tempo messosi a giocare. Abbracciati, Adèle e io abbiamo le guance unite e sentiamo senza parole spingersi a noi tante emozioni locali, la loro eco ludica sulla pelle, simile a idea dischiusa ogni volta che ci guardiamo negli occhi. Intanto il bus è arrivato in avenue du Maine, mentre scendiamo presso la stazione ferroviaria di Montparnasse.
Con mio padre ho appreso i modi di amare Parigi.
Poi ho fatto da solo, e ora è splendido riuscirci con Adèle. Verso di noi Parigi poi gioisce, e viene incontro priva di veli segreti. O con tutti i suoi segreti a disposizione, per noi, fierissimi d’ospitarla e di farci ospitare tra ragnatele palpitanti di pensieri scolpite in ogni gita.
Se ci tratteniamo per esempio al parco des Buttes-Chaumont, nelle sue abetaie da dove circolano ruscelli e prati, sui ponti fra sentieri scoscesi e rocciosi, o nella sua grotta più espressiva, sotto il fragore della massiccia cascata, Parigi diviene carezza letale e industriosa, e allora come un giovane bravo in creazioni Buttes-Chaumont si svela e si sposa con la cintura di case che l’incorniciano a ponente, col proprio sguardo di densità parafrasate. Le sue radure appaiono fasciate dal sogno, dove è più bello baciare come fosse la prima volta, e lasciarsi stordire dal cielo fresco come il pane.
Tutto lucente e opaco questo verde d’erba che cresce sulla pelle di Adèle quanto un marchio liscio, decisivo, mentre le sue mani, andando a spasso in me mi spingono a guardare nelle sue pupille alla ricerca del circuito totale, che fa svanire.
Al boulevard Ornano, se la mano è nella mano, e la città ci approva, noi rispondiamo come ragazzi a un’interrogazione: seri e composti per essere creduti in questo divertente gioco di specchi che il centro città qui colleziona verso nord, quasi per mostrare come esso non abbandoni le sue intrinseche e rare vastità, nemmeno in procinto d’andarsene in su, verso Saint-Denis e l’alta periferia che poi le farà svanire per magia, ma che per trucco esperto e autentico non periranno mai. Come sulla giostra noi navighiamo assieme alla nostra città: con tutti gli effetti vivi dei riflessi increduli che danno sempre novità di prospettive; ma alla fine ci arrendiamo, colti nella linea di questo boulevard da un’aria birichina: come se in essa nuotassimo per conoscerci meglio inventando altre frequenze ancora, per stare più vicini.
Ride Parigi, in place du Marché Sainte-Catherine, saziata in fondo al sacco dal nostro sentimento d’appartenenza. Accedere a qualcosa d’intraducibile e levigato emerso dalle province più lontane, per approdare qui con sforzo estetico e lucente, nel quadrato presente di case che s’intrufola imperfettamente leggiadro; pare quasi in un sacrario, in ricerca inespugnabile. Dai caffè sbirciano gli occhi sani di gente apparsa nel sogno; e dentro lo spazio delimitato da costruzioni tanto francesi compaiono i passi di persone orgogliose d’essere giunte fin lì. Anche noi due, seduti ai bordi di una panchina c’immaginiamo in coppia il sogno.
A tratti un bambino sembra essersi scordato di sua madre, corre fra tante gambe di passanti con dentro felicità, e cade alla fine per scabra immaginazione sul terreno. Sua mamma già è là, per sollevarlo fino al cielo e ringraziare, diremmo, d’avere un figlio così gaio e speciale. Sembra castello di re, o un firmamento stellato questo guscio in cui accarezzo anch’io Adèle, certo con lei di somigliare con identica maturità a questi posti intrisi di segnali; ma siamo irrazionali, e per questo anche noi speciali.
L’avenue Émile Zola, da place Charles Michels è tutta un’illustrazione di progetti. Mai soddisfatta chiama e richiama dalla sua linea chi le piace davvero. Vuole appunto mostrasi in splendide metafore zigrinate. Ti spiegherà chi sei, con ampia chirologia, darà senso al tuo viaggio in lei, vettore esistenziale. E allora pare più bello ancora essere promeneur così, su voci invisibili di una città che ti giudica eroe. Per l’anima diventi un filantropo geografo sui suoi marciapiedi, e tu le chiedi di venire a sua immagine e somiglianza. Sostare, temporeggiare rimanendo occulti: perciò sembra d’essere posti sul punto preciso di tante coordinate.
Sul quai de Béthune le novità scorrono bene, lo so. E voglio veramente aprire all’acqua leggera un’altra rarità. Veniamo a incantarci all’ombra. Qui pertanto la città m’apprese il suo linguaggio ricco, e potei risponderle contro il fato e nei mille giochi d’amore scivolati fra le viuzze possedute nel volto dell’isola più felice che mai.
Rivoli di storia fissano sguardi nel modo dei gabbiani allietati dal volo; io osservo sempre in Saint-Louis le forme che la Francia gode a portarci. Cerco nel corpo di Adèle l’arpa che mi cantò la forma certa da presentarle, da scandire per premio. Torno qui se rivoglio lo stesso peso specifico del vuoto assolutamente nativo.
Dal quai salgo completo, coi colori dei quartieri che s’incrociano senza soffiare. Rapito da questa bocca che si svolge tutta quanta al centro ancora meglio cittadino della mia intera voluttà. La gioia d’esistere per lei, d’averla come sangue pieno e scritto fino in fondo alle mie possibilità.
Subito al boulevard de Clichy si sentono dei tempi chiacchierare: vi è modo di pensare al presente da questo sguardo parigino che ragiona inaspettato. Non ci si può più arrestare qui. Poi le scosse variopinte in gergo, che fanno passare mutevoli i minuti non hanno pace, per poter proprio invitare al loro gioco inquieto tutti gli stupendi tranelli del cuore, che ha curve spumeggianti e se stesso vorrebbe allora eternamente divorare. Bello essere ancora cibo per questa città, o scivolarle via sentendo suo il fiato vaporoso che entra in vena simile a un ricordo esagerato e perituro. Esso ha mantenuto decorazioni e desideri di un’infanzia viva e umana, suonando le proprie luci saettanti, proiettando ogni memoria incatenata al piacere di future impressioni. Come in una vasca d’acqua tiepida che non si vorrebbe abbandonare, i cui gradi di tepore vanno su e giù, da noi corretti con sempre nuova corrente onde avere il benessere di una temperatura costante e fine, anche le alterazioni della vita noi manovriamo illusi, ma con vera maestria.
Ma rue des Martyrs è già realtà.
Parigi è lì, per te e tutta vera. Come tu sei ti vuole a sé, gentile, ordinato e ostinato e con in pieno tue voglie infinite e ricreate in permanenza. Tu le appartieni. Ti appartiene, lo vuole, e non aspetta che te a quel ciglio di strada dove nasci parimenti come altrove a ricordare in Edith Piaf, su pochi scalini a Belleville, l’età che avevi; allora non ti serve neanche più l’eternità. Tu le dai rose!
Su, verso rue du Faubourg Montmartre la gioia scoppia. Adèle non resiste ai miei scatti quasi chiari. Lei ogni mio moto lo vorrebbe intuire e poi conservare in sé, come la vita: guardiamo in là, verso La mère de Famille e respiriamo insieme, quanto in ombra la penombra appena vera: schiude miraggi che si lasciano toccare.
Parigi ai Porti, alla Senna vivace sotto i ponti ricchi delle sue isole. Parigi forte, fortissima come un fiore estivo e ossuto che non si smuove al vento e s’inerpica sullo sciacquio di queste correnti che porteranno al mare i nostri ricordi possenti. Tra una e l’altra idea gli amanti s’incollano a quel mutare di corrente che barche sostiene e colori ineguali: si tuffano a inglobare in lingue azzeccate e fin che dire si può, la loro audacia marinara; quasi che il prisma voluttuoso di parole così dette portasse il sortilegio dei loro dizionari.
E mentre s’impara a tacere per cogliere la corsa disparata della riviera s’apprende la monotonia come una voglia, una noia trapassata nel vuoto incespicato sulla fluente lena che trasforma quei posti in reali bacini dalla splendida perversione ereditata dalla luce. Allora, a immagine della città, si entra per così dire nell’efficiente e crudo rituale, più belli e avvincenti, come dei suoni venuti da sirene. E via con quella forza arguta che non si comprende essere, per fortuna, la verità stessa e viva della città appena passata. Ai bordi e sulle rive essa continua a spaziare per un costante amore smosso sul fiume così ruvido, così liscio.
Poi, davanti al Collège de France s’inventa a ogni ora una poesia.
Egidia, diceva, lasciando
perpetui incontrarsi gli strali
di parole piovute come veleno
e rotte dal silenzio ineguale. Diceva
per dolore cose infernali e idee
infuocate col labbro torto
fra quei diti stregati: a nessuno
poté evitare la forza astuta da idioma
che canzonava col carnevale acceso
degli occhi, e rabbia vorace addirittura
da invidiare. Per nulla
si dava facilmente al caso,
occupandosi a preparare stratagemmi
per pochi, per chi la prende coi sensi
e col cuore infranto fino a farle
vomitare l’acido più dolce che dà
alla pelle sconquassata il permesso
di fedeltà. Diceva di volere, di possedere
quando è in forma ogni corpo che sia
così capace, e inchinata
offriva meglio la sua assurdità. Ha
detto a me, che le ero molto vicino,
anche più di una parola per ripicca,
per osare sfidarmi fino al letto
che disonora solo insonni cretini. L’avevo
invasa della mia umiltà, diceva, convinta
di possedere quasi per caso
l’osceno congedo che si permette
il tempo solo da morto. Impazzì
tra le mie mani, sporgendosi
sin troppo su di me
continuando a sputare quei colori
che diceva essere i migliori, e facendo
impazzire anche fin dopo le parole.
E la rue Saint-Victor. Chi la sa visitare? È quasi un problema logico poiché non si possono ammettere certe sublimità. Vanno svegliati da queste parti i ladri di parole che fanno finta di stare fra le strade. La via è una conquista che cresce sbocciando dopo un lampo, e un lunghissimo lavoro paziente e linguistico dolore. È per pochi, pochissimi fortunati sofferenti. Sembrerebbe un paradosso in solitaria attesa, in isolamento rotto in apparenza da celate interferenze. La sua attitudine è molto tenace e spaesata; l’affrontano gli eroi soltanto che schiudono i segreti a regola d’arte.
In rue Talma e nei pressi torno sempre e specie al bar Aéro. Vedrò chiaro in questo mistero; perciò da giorni qui le mie visite si fanno regolari. Seguirò ancora attentamente Lacan, per farmi di tutto un’idea più precisa. Una o l’altra strada mi porteranno sempre qua, come in Roma imperiale. Altre scorciatoie dovranno occuparsi di me, rêveur per solinghe campagne dei Verdi prati, usate sincronicità. Cosa potrà emergere allora, fra tante cose che ancora non riesco a scandagliare? E come si lascerà libero lo spazio anche alla mia scrittura? Forse nel momento in cui capirò che a uccidere questa possibilità è stata la parola stessa che sto cercando invano, sembrerà alla mia mano di seguire una strana terapia che indica ciò che sgorga come inchiostro in un viaggio nella città che sa proprio elevare la scrittura ad arte.
Al bar sul filo delle ore attendo l’indizio opportuno e nuovo, e magari l’assassino, più vicino che mai; forse questi torna spesso a riguardare l’infelicità del suo delitto. La pazienza mi è amica, e sono pellegrino nell’inferno inverosimile che riuscirò ad attraversare per scrivere, e poter scrivere ancora, quasi per necessità.
Adèle ora guarda rue La Pérouse, e io l’avenue des Portugais. Siamo perpendicolari nel sedicesimo arrondissement. La città fa incontrare le vie incrociando noi intorno ad esse come la spiaggia il mare.
In cité Odiot s’ascolta intanto sul cavo di conchiglia il suono pigro di Parigi racchiuso fedelmente per l’attimo che basta. E place de Mexico è una risolta e ben precisa leva per scavi rari con audacia, ed è come in campo le spighe estive che maturano nel cerchio sbarazzino, stando la sera aspettando una nostra storia per bene addormentarsi un altro po’.
Villa Wagram Saint-Honoré dove è nascosta ora la nostra città, per un gioco di ragazzi; c’insegue o l’inseguiamo più forte di prima. Oppure dissolve per malia chi si diverte con lei in questo spazio trascinato via per pur divertissement.
Allora torno in lei in square du Roule, e siamo tragici ormai. Ha privatissima euforia e insieme fa girotondo penetrando fino in fine.
E la rue Galilée entrerà fino a place des États-Unis creando ammirazione, e nel verde rettangolo è gradita all’arte del sogno, come colta da Paolo Uccello in prospettive per inghiottire ottici tutti gli effetti casuali di strabilianti amplessi.
In questo modo esiste la via di Jeanne Monti, che ha deciso di viaggiare per la prima volta in volo. Vacanza a Tenerife. Cosa cela la città in quella via così cara a mio padre? Cosa schiude la sua casa che sembrerebbe sepolta dai succhi profumati e misteriosi che coltiva? Come alle Canarie è il giudizio dei colori che vi appare; ed essi liberati da regole svettano insieme a formare il mare; acque in proporzioni per altre cose da dire e lasciar riguardare dalla sorte. Jeanne è proprio lì, a vedere le probabili emozioni che a passeggio si specchiano nel suo Dézaley. Ci accoglie e tinge di savoir-faire; sì, certamente in una gita tutta quanta anche antica e greca. Con brani di città lavorati nella maglia che ha presa efficace su di noi. La lasciamo fare, in formule da specificare. Anche lei forse è maga per il segreto che cerco nuovamente di veder apparire dalle sue parole.
Esiste la rue Jules César. Che dire ancora ? I suoi elementi crescono all’insegna di pochi privilegi : un tuffo in più nel bianco cupo delle idee che paiono vaneggiare, ma poi si traducono davvero in eleganza posta in trono per chi legge con dolce creanza. Rue Jules-César ha questo di ulteriore. Non oserai altro se vieni a vederla; ti sembrerà muovere i passi come allora, a bella posta. Potrai cantare dentro di te, in attesa di qualcuno che sia come te. Troverai forse ancora di più, a guardar bene. Ed entrerai magari in uno di quei luoghi espressi, che si dicono e scrivono proprio così. Di là poi non incontrerai che vuoto fiuto per definire tante case seguendo non solo questo istante, ma pure gli altri che ti saranno tutti amici. Saprai di quelle cose l’essenziale, per non ripeterti e non causarti guai.
È ciò che cercano i costruttori veri, che intendono poter parlare per accennare a ciò che mai esiste e sempre c’è. Poi non partire subito, credi, se sfiorerai anche così la rue Georg-Fridrich-Haendel. Laddove il sole rasenta percettibile linee ai suoi bordi, come indicasse a te l’uscita. Siccome ci si trova sul prato d’aria che scuote, mi porrei all’ascolto di quel che passa, volentieri, che si tramuta e torna in Francia a celebrare; è la sua originale partizione protettiva, agli inizi di ogni scoperta nel viaggio intorno a noi.
In fondo al pont des Arts più ombre occhieggiano per fedeltà nella nostra direzione; certo portiamo diverse nuove parole a guardare il fiume, che oggi riceve idee tondeggianti e leste dalla Coupole disegnatasi sull’acqua appena crespa: perciò ci dirigiamo al quai Voltaire che ci aspettava, più presente che mai.
Oggi allora ci baciamo a quella stazione d’arrivo. Ci fermiamo a Montparnasse, come dicevo.
Ci lasceremmo distrarre da qualche carezza ulteriore, dai guizzi d’altri sguardi e dalle nostre mani che cercano respiro. C’infiliamo come siamo capaci lungo il parvis Daniel-Templier, sentendo in questo andirivieni lubrificato dai continui mutamenti i treni che rientrano a ricordarsi deità.